Nella mente di un creativo: intervista a Silvio Laccetti

Scritto da Gianmarco Capri

Febbraio 13, 2020

Facciamo parte tutti di una storia infinita e siamo il frutto delle nostre scelte. Ci sono percorsi professionali che ci aiutano a comprendere quanto sia difficile ma al tempo stesso entusiasmante riuscire a trasformare la nostra passione in un lavoro.

La community di Montalo è nata anche con l’idea di unire storie di professionisti del settore e freelance che sono riusciti ad inseguire i propri sogni.

Conoscere il loro percorso di formazione e lavorativo può aiutare tutti a capire come riuscire ad ottenere gli obiettivi prefissati.

In questo quarto appuntamento, dopo aver raccontato la storia di Davide Mazzetti  , quella di Giampiero Civico e Fabrizio Rienzi, oggi ho il piacere di raccontare il percorso formativo e professionale di Silvio Laccetti, giornalista, sceneggiatore e regista di 28 anni.

Una storia che potrà aiutare tutti coloro che vogliono trasformare la passione per i video in un lavoro.

Silvio, io ti conosco bene ma ti chiedo comunque di presentarti agli utenti del Magazine.

Mi chiamo Silvio Laccetti, ho 28 anni, sono di Vasto ma vivo a Roma da otto anni. Sono un giornalista, sceneggiatore e regista.

Quando hai iniziato a realizzare video?

La mia prima “camera”- se possiamo definirla come tale- mi è stata regalata dai miei genitori quando avevo 6 anni. Naturalmente non era una camera professionale, più un giocattolo. Facevo riprese in bianco e nero attaccandola alla mia tv e mi riprendevo mentre mi mascheravo da Batman, Zorro e The Mask.

Poi durante le scuole elementari e medie ho seguito un corso di teatro. Alle superiori mi sono dilettato con i video di famiglia e dei compleanni.

Seriamente invece ho iniziato all’età di 19 anni quando ho scritto la sceneggiatura di un documentario su un pianista jazz, Angelo Canelli, dal titolo Asgard (2016, regia di Simone D’Angelo).

Qual è stato il tuo percorso formativo?

Finite le superiori ho scelto Scienze della Comunicazione come triennale. Volevo fare il giornalista così mi sono buttato e ho seguito parallelamente uno stage in una tv locale di Pomezia, vicino Roma.

Lì ho imparato a mettere mano a Edius, software di montaggio, ma soprattutto ho passato tanti pomeriggi sui campi di Terza, Seconda e Prima categoria di calcio. Un’esperienza unica, per molti aspetti e per le avventure vissute.

Successivamente ho lavorato due anni per un giornale locale della mia città riuscendo a prendere il tesserino da giornalista. Durante questi anni, però, la mia passione per l’immagine è cresciuta, soprattutto per i documentari. Ho realizzato diversi video reportage per il giornale in cui ho lavorato con l’idea di voler raccontare storie personali, biografie di ricordi, sia riguardanti la musica, la cultura che lo sport.

Durante la stesura della mia tesi magistrale in Media, Comunicazione Digitale e Giornalismo ho avuto la fortuna di lavorare quattro mesi per uno stage curriculare a Report, programma storico della Gabanelli su Rai 3. Un’esperienza che mi ha aperto un mondo e mi ha fatto capire cosa davvero volevo fare: realizzare documentari. È stato un anno davvero folle.

Nel giro di pochi mesi sono diventato giornalista pubblicista, mi sono laureato alla Magistrale, lavorato come sceneggiatore ad un documentario dal titolo Urbano, terminato lo stage a Report e iniziato le riprese di Generazione Diabolika.

La domanda è la stessa che ho fatto agli altri: quali sono i progetti a cui sei più legato?

In un ipotetico podio ci metto in primis il mio ultimo documentario, il primo da regista, Generazione Diabolika che ho prodotto insieme a Giuseppe Di Renzo e ad un ragazzo molto bravo che si chiama Gianmarco Capri (lo conosci per caso?).

È sicuramente il lavoro che mi ha dato più soddisfazioni per la portata ed i risultati ottenuti. Finire su testate di rilievo ed essere intervistato su Rai 1; vedere il cinema Barberini di Roma pieno zeppo di persone e andare in giro per l’Italia a presentare questo documentario è stato qualcosa di unico e vorrei avere la macchina del tempo per rivivere tutto di nuovo.

Poi un’esperienza fondamentale è stata quella di Urbano, un documentario sperimentale diretto da Giuseppe Di Renzo che mi ha visto nel ruolo di sceneggiatore e produttore esecutivo. Abbiamo seguito un pugile abruzzese per sei lunghi anni, in giro per l’Europa. Abbiamo visto e vissuto in prima persona gli ultimi anni della sua carriera, tra trasferte lunghe in Germania e le difficoltà di chi vive in provincia. È stata una scuola per me.

Poi ci sono state tantissimi altri progetti che mi hanno dato tanto. Collaborazioni e lavori in team che mi hanno fatto conoscere bellissime persone e professionisti che mi hanno insegnato tanto. Venendo dal giornalismo ho avuto modo di realizzare tantissimi video reportage che mi sono serviti da base per la ricerca di una forma personale, grazie alla quale raccontare storie. Per ora questa forma è prettamente documentaristica ma credo che il tempo ci dia a tutti l’opportunità di poter sperimentare tanto altro.

Ci conosciamo ormai da tempo e credo che l’aggettivo che ti qualifichi di più è “creativo”. Spesso le persone non riescono a cogliere le sfumature di questo lavoro e molti non lo considerano neanche come tale. Cosa significa essere creativi?

Ognuno di noi in fondo lo è. Se sentiamo l’esigenza di esprimere un punto di vista sul mondo e questa esigenza diventa un bisogno, ed il bisogno diventa una necessità, allora non abbiamo altro modo se non esprimere tutto questo. C’è chi sceglie la musica, chi la scrittura, chi il racconto per immagini.

Essere dei creativi dal mio punto di vista credo significhi saper guardare le cose sempre da un’altra prospettiva ed offrire uno sguardo originale che sappia saziare le volontà artistiche di chi crea ed emozionare chi fruisce di quel prodotto creativo.

È anche uno stile di vita che ti permette di non rinchiuderti all’interno di barriere ma di cercare ogni giorno di buttarle giù. I creativi distruggono e ricostruiscono la realtà che hanno di fronte. Questo al tempo stesso ti obbliga a metterti sempre in discussione e a fare i conti anche con la propria personalità, con i propri limiti e quelli degli altri. Capisco chi non riesce a vederlo come un lavoro perché in realtà è molto di più.

Tu sei un freelance. Quanto è difficile esserlo e quali ostacoli hai dovuto superare all’inizio?

Essere un freelance è un po’ uno stile di vita. Non hai orari d’ufficio, gestisci il lavoro come meglio credi e soprattutto scegli quali progetti portare avanti. Allo stesso tempo però non stacchi mai. L’ostacolo più grande all’inizio è quello di riuscire a sopravvivere. È stata molto dura soprattutto quando capitava in alcuni mesi di non lavorare e comunque si hanno delle spese.

Quando invece riesci a crearti una catena di contatti non è più questione di sopravvivenza perché inizi a vivere. Bisogna essere motivati altrimenti è meglio trovare un lavoro stipendiato.

Di cosa ci parlerai nella tua rubrica settimanale?

Come ho detto vengo da un percorso incentrato sul testo che poi mi ha portato ad una traduzione per immagini. Quando mi hai parlato di questa tua idea ho subito colto il valore di questa iniziativa.

Credo che parlare delle fasi organizzative, creative e operative di un prodotto video sia molto importante.

Spesso si pensa che fare video significhi premere Rec e riprendere qualcosa.  Io credo che senza una pianificazione organizzativa, una ricerca creativa ed un gruppo di persone che conoscono questo lavoro non si arrivi a risultati qualitativamente rilevanti.

Vorrei parlare dell’importanza dell’attività di scrittura, di come farlo e come organizzare quello che si è scritto dovendolo poi girare. La pre-produzione molte volte viene sottovalutata e invece, se curata nel dettaglio, è ciò che può fare la differenza. È ciò che ci permette di lavorare alla produzione in maniera seria e pianificata.

Credo che questo argomento meriti confronto e approfondimento.

 

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